sabato 30 aprile 2016

La via cava





Massimo Parolini ovvero il cammino del viaggiatore che sta tornando
di Bonifacio Vincenzi

“Cavo, concavo, incavo, è ciò che ha la superficie curva e rientrante. Cavo è il grembo che ci ha custodito dal concepimento alla nascita. Cava la culla che lo ha sostituito nei primi mesi di vita. Cava è la mano che stringo in segno di relazione, cava la mano che accarezza, che accoglie l’acqua che disseta e ci sostiene, cavo il pozzo da cui attingere l’acqua, il secchio che la raccoglie, il mestolo la coppa il bicchiere che imitano la mano, cavo il vaso che contiene gli alimenti. Cavo è il riparo che ospita l’uomo, dalla grotta caverna alla casa certificata, cavo il riparo degli dei, l’antro della Sibilla, il luogo delle profezie, gli ipogei, le necropoli (unite negli Etruschi dalle “vie cave”). Cavo è l’organismo che ospita i nostri organi vitali, cava la via che conduce i cibi di cui ci nutriamo ad essere assorbiti ed espulsi, cava la via orale della loro assunzione e la via anale della loro espulsione, cava la via dalla quale percepiamo i suoni del mondo, i suoi odori, i suoi gusti, cava la via dell’amore e del piacere. Cavità nasali, orbitarie, cavità cranica, addominale, toracica, ascellare, pelvica, peritoneale… Cavità anatomiche, cavità geologiche. Cava la buca che ci accoglie nella terra, la bara che ci contiene, l’urna cineraria, il sarcofago, le piramidi, la tomba a tumulo, la fossa comune. E poi cantine, nicchie, pozzi, cunicoli, cisterne …”

Così Massimo Parolini cerca di spiegare in qualche modo ai suoi lettori La via cava, la più recente delle sue raccolte di poesie, edita da LietoColle. Lo fa anche se sa perfettamente che il linguaggio del pensiero e il linguaggio che sboccia dal canto poetico spesso prendono direzioni differenti e sa anche quanto sia doloroso per l’autore questa impotenza di fronte alla libertà del lettore che a volte neanche coglie certi aspetti dell’opera tanto cari al suo creatore.

Ma quest’opera dalle infinite cavità ha la capacità di portare il lettore in profondità e lì le differenze sono meno marcate. Leggere allora diventa un momento d’ascolto della profondità parlante:

luce che si alterna/ tra le pagine del libro/ e improvvisa ombra impura:// ecco il nostro amare/ ricevere la forma/ dell’inquieta larva oscura

Mondo e anima e fuori nessuna forma pacificata per legarsi a un tempo lento. Di questo il poeta è consapevole. Ma è nell’incavo che il tempo accelerato perde molto del suo furore. È nell’incavo che l’Amore invano cerca di fondersi nell’Altro.


La poesia di Parolini non può essere, per fortuna, compresa all’istante. Ogni verso si apre alla durata di un raccoglimento. La via cava è fatta di stazioni, di fermate. E colui che cammina su questa via è un viaggiatore che sta tornando.

martedì 26 aprile 2016

Tentativi di resistenza all'oblio




L’universo narrativo di Marco Sartorelli
di Bonifacio Vincenzi

Presto feci l’abitudine a sentire implorazioni, a vedere uomini forti, robusti e fieri piegarsi per chiedermi di aiutarli, ad essere scansato e guardato di nascosto per la strada da chi conosceva come guadagnavo un tozzo di pane e qualche pinta di birra. Sopportavo le grida e le lacrime, il sangue che mi  investiva a fiotti e la folla che mi incitava a calare la mannaia.

E ancora:

Martino chiuse gli occhi, tese il braccio e aprì la mano, sforzandosi di non tremare. Una sottile brezza colse la lucciola, che sembrò scossa e tornò a essere. Pulsò, sussultò ancora e volò via accendendo e spegnendo la notte.

Sono brevi respiri narrativi  tratti da Tentativi di resistenza all’oblio, sedici racconti  di Marco Sartorelli, editi recentemente da LietoColle.

Uno sguardo che sembra attratto dai chiaroscuri dove si risaltano i dettagli: vite, variazioni di parti, dimensioni, distanze. Le immagini liquidano e dissolvono il problema dell’anima e dell’interiorità. Un mondo onirico accoglie lo sguardo del lettore che vive ogni racconto quasi in uno stato di dormiveglia. Tutto si compie velocemente e il clima tra una storia e l’altra cambia di poco.

Il tempo è un miraggio. I personaggi si aggrappano allo sguardo del lettore rivendicando la loro vita di carta. Durano il tempo di due o tre fruscii di pagine. E poi ritornano al silenzio.

Vita e morte spesso si confondono in una linea molto simile a quella che in lontananza sembra separare l’oceano dal cielo.

L’universo narrativo di Sartorelli è oscuro, inquietante perché, alla fine, i personaggi volgono quasi sempre le spalle alla Vita.

LietoColle


lunedì 25 aprile 2016

Lettera a D.






 La scrittura poetica contaminata di Alessandro Assiri
di Bonifacio Vincenzi


Lo spirito del disordine. La guerra eterna di quello che hai fuori e di quello che hai dentro. Viaggi inventati, sentieri ripetuti mille volte. Il raffreddarsi dei sorrisi. La noia sempre in agguato. La violenza di certi gesti. L’inferno e il paradiso. I piccoli fallimenti delle passioni. E ancora, le malinconie, il vuoto, le pause, i sogni neri, i vizi, l’esilio, l’ascolto del silenzio …

È un libro di Poesia, amici. E ciò che esprime la buona poesia ci riguarda sempre. C’è un autore: Alessandro Assiri. C’è un titolo:  Lettera a D. C’è un editore: Lieto Colle.

E, soprattutto, prima di iniziare il viaggio,  c’è un’avvertenza ai lettori molto significativa:

D. (come iniziale di tutti i Destinatari) scandisce il tempo assoluto in una contemporaneità quotidiana, che sembra avere nella pratica delle manie e dei vizi l’unica via d’uscita dal banale. Un testo imbrattato e sporco come solo può essere una scrittura contaminata, una narrazione che usa la forma epistolare per rincorrere una sequenza di atti emotivi che hanno potuto (e saputo) eccedere anche rispetto alle proprie illusioni, ai propri miraggi. Tutte le volte che mi capita di ripensare a D., sento che – a forza di aspettare – le rivoluzioni accadono sempre senza di noi; forse è per questa ragione che ho provato a fermare “quella” energia vitale, perché non andasse dispersa nell’astratto delle figure che attraversano l’incompiuto del “mio/nostro” tempo comune.”

… una narrazione che usa la forma epistolare per rincorrere una sequenza di atti emotivi che hanno potuto (e saputo) eccedere anche rispetto alle proprie illusioni, ai propri miraggi.

Non è grandiosa questa rincorsa effettuata da Assiri? Non è quella che facciamo anche noi ogni giorno in certi momenti in cui vediamo emergere dai nostri pensieri tutto ciò che abbiamo voluto perdere in un supremo atto di assoluta salvaguardia?

Lettera a D. è un libro da leggere perché segna un movimento, un passaggio tra zone d’intensità differente in un tempo non più misurabile o regolabile. È un transitare tra gli strati di quella Vita che riconosciamo come nostra. Un cercare di ricominciare su un altro piano ciò che realmente non si potrà più ricominciare.

Magia della Poesia! Magia del Silenzio che parla!

ti ritraggo meglio in aprile/ in uno dei nostri inferni moderatamente soleggiati/ coi piccoli fallimenti delle passioni raccontati come vita leggendaria./ Potevo sentire tutto il tuo struggimento per le cose inutili/ per i labirinti in cui da sempre ti ritrovi/ per l’ossessione che coltivi da anni per il cinema tedesco/ e per il mio immaginario che da sempre tratti come ospite malato o come/ sradicato soccombente alla Bernhard/ (di cui ti vanti sempre di possedere quasi tutto)./ Stendo grandi quantità di colore per la lista dei tuoi interpreti/ per i manifesti delle tue scene interiori/ per fermare i tuoi strilli sulla tela e i pantaloni a fiori che ti alzavano il culo/ quando qualcuno ti aveva immaginato femmina inventandosi un mondo.” (A D. Che ha imparato a restar vivo)

Imparare a restar vivi per, alla fine, potersi dire:

Ogni tanto mi illudo che esserci ti sottragga a un sortilegio/ poi mi accorgo che tu non mangi quasi mai per fame/ tu mangi per durare e a volte cali come sipario nei teatri.”

 LietoColle


lunedì 11 aprile 2016

Bataclan


Bonifacio Vincenzi racconta, in liriche, la tragedia del Bataclan
di Marco Testi



Stavano lì
ad assaporare la vita
ignari che la normalità
fosse una colpa

La tragedia di Bruxelles richiama l’altra tragedia del novembre parigino. Poche armi rimangono agli uomini di buona volontà
per far sì che queste storie, lungi da tramutarsi solo in paura, divengano nuova linfa. L’arte, la musica, la poesia, il racconto. Così fa lo scrittore Bonifacio Vincenzi con la sua raccolta di poesie interamente dedicata ad uno dei luttuosi eventi parigini, quello accaduto durante un concerto allo storico teatro Bataclan e costato 93 giovani vite. E “Bataclan” (LietoColle, 59 pagine) s’intitola questo commosso ricordo del sacrificio di tanti ragazzi inconsapevoli che la loro storia sarebbe diventata Storia con la maiuscola, una tragica Storia che non finisce di scriversi da sola sui libri scolastici e che parla di violenza folle. Il tempo dell’uomo che si contrappone a quello dell’eternità e a quello della storia è uno degli elementi fondanti di questa raccolta che si presenta suddivisa in quattro sezioni: “Un attimo prima degli spari”, “Vittime”, “Il sorriso di Marie”, “L’abitudine della vita”. Attraverso le maglie di questa triplice dimensione del tempo, passa il dolore. 

Quando esso è vicino a noi, troppo vicino, non è dicibile. La vicinanza lo rende urticante, inarticolabile, muto. Il poeta non tenta infatti alcuna razionale spiegazione, cerca semplicemente di mettersi dentro l’evento, capire con lo spirito e non con la testa. 

Sono giorni in cui la testa da sola non può spiegare il mondo, a riprova che i meccanismi razionali non bastano di per sé a dare risposte. Un mondo che come dice una delle brevi liriche, è morto in “questa notte”. La consapevolezza dolente che una vita è irrisarcibile di per sé, e lo sprofondamento nell’enigma di ciò che sta accadendo è un’altra delle dimensioni di “Bataclan”. Sembra che l’ansia di vita dei giovani di ogni tempo lasci una impalpabile presenza collettiva e nello stesso tempo ricollegabile ad ognuno:

Di quei ragazzi rimane
l’impazienza di una giovinezza
mai scomparsa

Perché il grande motivo del tempo rimane dentro ogni verso, sposandosi con la richiesta, in questi giorni mai così sentita, di un perché.

Per loro e per tutti gli anni
che chiederanno conto al tempo 
sarà primavera in novembre.

La violenza della storia non impedisce un lento, inesorabile riaggallare della riflessione sulla nostra realtà. Ritornano i grandi interrogativi – come piantine che si fanno largo sulle fessure del cemento – sulla nostra vita, sulla sua possibilità di allargarsi a comprendere l’altro in una comunione che forse rappresenta il vero antidoto alla brutalità di quello che nel “dopo” chiamiamo storia. Fino a giungere in una visione che va oltre la dimensione di ciò che chiamiamo tempo:

Siamo ciò che la vita ci consente di essere
e abiteremo tutti nella stessa assenza, non più case 
né conti in banca, un fremito soltanto 
di anime vaganti.

Rimane fortissima la consapevolezza del rischio della poesia in questo momento: l’inutilità, la retorica. Vincenzi prende di petto questo rischio, andando a chiedere ragione ai modelli un tempo amati e che ora sembrano grondare impotenza e dolore, rivolgendosi ad esempio al grande Prévert, chiedendogli ragione dei ragazzi “che si amano”, immortalati dai
versi del francese, e che ora muoiono “nell’abbagliante splendore/ della loro libertà”. La necessità della vita, che continua in altri giovani e che è più forte e fatale della violenza, è l’altra grande componente di questo ciclo lirico. Dopo il tempo, dopo il dolore, ecco, alla fine, ciò che è inestinguibile, ciò che non potrà mai essere fermato, perché oltre l’oggi nuovi domani, e nuove vite, verranno, a portare nuove e più salde speranze:

Credono di averti uccisa
non sanno dell’altra vita
non sanno che vivi
nel sogno dei bambini

domenica 10 aprile 2016

Note di passaggio






Poesia come ricerca del Sé autentico nell’opera di esordio di Cesarina Vegni
di Bonifacio Vincenzi


Da sempre ho paura./ Così lascio sbiancare il viso, accelerare il polso. Poi inspiro fin dentro/ la gran cassa del mio torace e punto lo sguardo sul quotidiano:/ Nord,Sud. L’ago inutile gira su se stesso.// E se mi lasciassi scivolare nella mia paura? Non opporre mai più il/ corpo al corpo Ecco... s’immerge, gira con la corrente, cambia il suo/ verso, si allunga e si raccoglie nello scorrere e poi riemerge dopo il/ frastuono delle rapide// sulla superficie ferma della luce.” (Autobiografia)

L’autobiografia in versi che apre quest’opera di esordio della milanese Cesarina Vegni, Note di passaggio, edita da LietoColle e inserita nella prestigiosa collana I giardini della Minerva, diretta da Maurizio Cucchi, ci deve in qualche modo far riflettere.

Dall’alto della sua competenza Maurizio Cucchi, nella prefazione, coglie molto bene il senso e l’anima di questo libro:

“Cesarina Vegni – scrive Cucchi - compie in questi testi una ricerca del sé più autentico, una ricerca condotta con discrezione, per un bisogno di onesta ricomposizione estetica di un quadro di vita dalle varie sfaccettature e sfumature. Si muove essenzialmente alla scoperta di un fondo di verità nel reale, oltre la scorza della routine, ed è una scoperta che le suggerisce il bisogno, poi, di testimoniarne di dar forma alle impressioni che l’hanno attraversata.”


Ma “il Sé, in quanto tale, - scriveva René Guénon – non è mai individualizzato: non può esserlo perché viene sempre considerato dotato degli attributi di eterno e di immutabile che sono necessari all’Essere puro, perciò non è suscettibile di alcuna particolarizzazione che lo renderebbe “altro da sé” … Di fronte al Sé tutti gli stati della manifestazione si equivalgono rigorosamente e possono quindi venir considerati allo stesso modo …”

In Cesarina Vegni il Sé autentico,  pur rimanendo sempre identico a se stesso, riesce a trasparire, nella profondità della sua ricerca, anche attraverso le molteplici trasformazioni del suo mentale. È sempre lì, immutabile, eterno mentre fuori tutto scorre …

La nota di passaggio è lo sguardo sul paesaggio/ che scorre, sul gesto umano accennato: un odore,/un’esitazione, una tonalità del giorno. La nostra vita transita veloce per luoghi che ci appaiono/ uguali./ Siamo in un mondo dove il linguaggio/ non suscita stupore. Ciascuno si rifà a una casta, riti/ uguali si ripetono. E ogni casta/ non pare diversa dalle altre. La curiosità/ è ancora una salvezza, la lente/ che ci lascia vedere al di là. E poi …/fissare una nota con la punta/ di un lapis , chissà.” (Note di passaggio)

Più si leggono le poesie di Cesarina Vegni più ci si rende conto come sia alto il suo grado di consapevolezza. Sicuramente merito di un sentire che per avere questa sensibilità per forza di cose ha dovuto pagare il suo prezzo con la sofferenza. Più alto è il grado di consapevolezza e più costante e significativo diventa il rapporto con la propria sofferenza.
D’altronde chi decide di ricercare il Sé più autentico subisce inesorabilmente una lacerazione. Il semplice “io sono” indifferenziato diventando “io sono me stesso” e cioè persona specifica nettamente differenziata mette in moto inesorabilmente il meccanismo della dualità.

“L’essere – direbbe Patrick Ravignant – si accanisce tentando di diventare qualcuno e viene sospinto di identificazione in identificazione, di definizione in definizione, di progetto in progetto, di insoddisfazione in insoddisfazione. In realtà è impossibile tentare di essere qualcuno senza inevitabilmente procedere per riferimenti, paragoni, mimetismi, e senza identificarsi con un certo numero di modelli esteriori prestabiliti e stereotipati. Quantificando come estraneo  ciò che corrisponde a questi modelli, ci costruiamo da soli la cella della nostra identificazione, e in essa ci muriamo vivi.”

Non c’è dubbio che nella cella della sua identificazione Cesarina Vegni c’è vissuta a lungo. D’altronde, non avrebbe potuto evitarlo, non c’è  mai consapevolezza senza il necessario travaglio.

Ora sa che nel momento in cui l’illusione della separazione e l’angoscia dell’io e dell’altro scompaiono, in quel preciso momento, la felicità assoluta diventa lo stato stesso della sua realtà. E questo lo si capisce molto bene dalla poesia “Violetta”, con cui chiudiamo questa nostra breve nota:

Mi metto prona. Non c’è più il mio corpo, sono solo occhi, lo/ sguardo di uno gnomo nel sottobosco della mia aiuola. Sono in un/ mondo appena sopra la radice delle piante, un paesaggio minuscolo/ nascosto fra foglie secche e sassi./ Sento le zolle fredde sotto il mento, il vento passa fra gli steli, secca/ le labbra. Rabbrividisco nel sottobosco casalingo mentre cerco un/ segno di inizio o forse di ritorno./ Nel crepitare senza sosta dell’ombra e della luce, sotto il suo cuore verde, mi appare una lucida violetta.”

LIETOCOLLE
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